
La strada asfaltata dai russi è sventrata da giganteschi crateri, nei quali si intravedono i rottami contorti dei mezzi militari. Le bombe da 500 chili sganciate dai B-52 hanno polverizzato le postazioni dei taliban. Le prime luci del mattino del 13 novembre illuminano un paesaggio spettrale. Gli uomini sfilano nella sterpaglia bruciata dal fuoco delle granate portando a spalla una barella: Mohammed, 22 anni, è saltato su una mina e la sua gamba sinistra è un ammasso informe di sangue rappreso e carne spappolata. Ma non hanno scampo”.Īl crepuscolo una pattuglia è in marcia verso le retrovie. “Anche gli arabi e i pachistani stanno scappando” dice a Panorama Salangì indicando le jeep che si dileguano all’orizzonte. I combattenti consumano il rancio, cipolle e patate lesse, attorno a un bunker talibano: all’interno una teiera è ancora sulle braci accese, i razzi anticarro sono accatastati contro le pareti di terra, il pavimento è coperto da centinaia di bossoli di mitragliatrice. Alle 17 i mujahiddin raggiungono il passo di Khair Kanà: Kabul, a soli 5 chilometri, è sotto il tiro della loro artiglieria. Uno dopo l’altro i capi dei distretti a nord della capitale segnalano la resa sparando in aria un colpo di bazooka. Il suo intervento è risolutivo nella battaglia di Rabat: alle 14,30 i tank sfondano al centro della pianura, si uniscono agli zarbatì (corpi speciali) di Haji Almas e si lanciano all’inseguimento dei taliban in fuga. La sua fama di tagliagole e di voltagabbana è leggendaria: nel ’96, dopo essersi schierato con il regime fondamentalista di Kabul, si alleò con Ahmed Shah Massud e fece massacrare centinaia di taliban. Dalla sua roccaforte nella valle di Salang controlla la strada strategica tra Mazar-i-Sharif e la capitale. Salangì, 40 anni, barba ben curata, occhiali da sole alla moda, è il più spietato signore della guerra tajiko. E dopo una ventina di minuti, alla testa di un reparto d’assalto, Basir Salangì assume personalmente la guida delle operazioni. Vengono chiesti rinforzi sulla frequenza radio 5175. All’improvviso l’avanguardia della colonna è investita dal fuoco nemico: i colpi dei mortai cadono sempre più vicini e i proiettili delle mitragliatrici rimbalzano sulla sommità del muretto d’argilla sotto il quale mi sono gettato. Procediamo con cautela, camminando nel solco dei cingolati e cambiando spesso percorso per evitare le mine disseminate ovunque, a migliaia, nei campi e sulle piste sterrate. Il contingente si divide in due tronconi. Sul fianco destro della valle le truppe corazzate del generale Haji Almas, dopo un nutrito sbarramento di razzi Katyusha, raggiungono Qarabagh, sulla vecchia strada per Kabul, dove 700 taliban vengono fatti prigionieri. Gli uomini si accucciano nei fossati, al riparo dai cecchini appostati tra i ruderi dei casolari, mentre gli ufficiali attendono dai walkie-talkie le istruzioni di Bismillah Khan, che dirige l’offensiva dal comando di Jabal Saraj. E anche sul fronte di Kabul l’appoggio tattico dell’aviazione si è rivelato cruciale.Ī ogni curva del viottolo che s’inoltra verso la prima linea i mujahiddin si fermano. Il loro lavoro era stato determinante per la conquista di Mazar-i-Sharif, dove i C-130 avevano paracadutato biada per i cavalli e munizioni per il generale uzbeko Rashid Dostum. Hanno in testa il pakul, il copricapo a ciambella degli afghani del nord, e si spacciano per giornalisti della Cnn: sono in realtà operativi delle forze speciali americane incaricati di trasmettere le coordinate degli obiettivi agli aerei spia. Da un tetto, in una postazione difesa da sacchi di sabbia e mitragliatrici, tre occidentali con giubbotti antischegge scrutano con binocoli da rilevamento gli effetti dei bombardamenti. La battaglia di Kabul è iniziata all’alba, quando ondate di B-52 e di F-18 hanno cominciato a colpire le trincee e i bunker a sud della base aerea di Baghram. Continuano a camminare, anche quando le granate dei tank esplodono a poche decine di metri, nei vigneti e sulle case abbandonate. Uomini in ciabatte armati di mitra e di bazooka, ragazzini con il Kalashnikov a tracolla, barbe bianche di veterani che trasportano mortai e casse di proiettili. I combattenti marciano in silenzio, dietro la corazza di un cigolante carro armato sovietico che solleva nuvole di polvere e di fumo. Sono le 10 del mattino di lunedì 12 novembre e i 400 mujahiddin del comandante Basir Salangì hanno ricevuto l’ordine di attaccare la prima linea dei taliban nella pianura di Shomali. La colonna avanza in fila indiana rasentando i muri di fango del villaggio fantasma di Rabat.
